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L’arca di Konrad Lorenz. Ilona Jerger avrebbe dovuto intitolare così il suo libro sull’etologo austriaco più celebre al mondo. Un testo che straborda felice di bestiole, pennuti, topastri, canidi e di tutto il loro armamentario comportamentale istintivo, mi raccomando istintivo non acquisito, sia nell’interazione tra animali e uomo che in splendida solitaria. Konrad (Neri Pozza) comunque può bastare. Titolo secco, snello, incline ad una purezza intenzionale: nome proprio in cima a tutto – e potevano starci anche quelli dell’oca Martina, del cane Nanuk, dell’uccello Ciok – per dire che la biografia del (quasi) pioniere che sistematizzò rocambolescamente in volumi scientifici, da milioni di copie nel mondo, abitudini, atteggiamenti, azioni e reazioni di oche, taccole, castori, cinghiali e chi più ne ha più ne metta, non c’è solo talento, genialità e un pizzico di buona sorte, ma anche tiepide ombre, angoli angusti, possibili imprecisioni.

Nella fattispecie quella vicinanza con il partito nazionalsocialista tedesco negli anni Trenta, quel punto filosofico esistenziale poi mica tanto oscuro similmente alla parabola di Martin Heidegger (il filosofo nel libro appare, ne parliamo tra poco), che riemergerà carsicamente nella carriera del nostro, proprio quando l’apice professionale del Nobel (1973) lo investirà oramai settantenne e padre di un ambientalismo alla tedesca piuttosto atipico. Figlio di un ortopedico di fama internazionale (papà Lorenz aggiustava ossa anche ai presidenti statunitensi), Konrad Lorenz manifestò fin da ragazzo una propensione alla vicinanza fisica e all’ossessiva quanto naturale curiosità verso il comportamento animale. Il guizzo intellettivo, che caratterizzerà la sua “scienza gaia”, sarà proprio quello che riguarda l’osservazione sui pennuti neonati legati affettivamente a chi gli faceva subito da madre, anche se di specie diversa, “la prima cosa che corrisponde al loro monosillabico pigolio”. E Lorenz questa scoperta la effettua di persona, incubatrici, paglia, cacchette di oca in casa, vero e proprio zoo da centinaia di animali brulicanti tra giardino e salotto, caos infernale e incomprensibile per siffatto padre, affascinante e stuzzicante posa da fidanzato eccentrico per Gretl, futura moglie e medico, con lui fino alla fine dei suoi tribolati giorni. E se nell’Austria ipercattolica e oscurantista tra anni Venti e Trenta, Lorenz è visto come un frivolo e infervorato darwinista, quindi messo ai margini da qualsivoglia accademia della scienza, è solo con l’Anschluss del ’38 e il relativo repulisti che trova posto e supporto all’ateneo di Konigsberg (dove insegnava Kant) nella Prussia Orientale, fiancheggiando diverse posizioni pseudo scientifiche del nazismo, a partire dal labile concetto del “materiale umano socialmente scadente” che verrà reinterpretato nel peggior significato e colpa possibile. Lorenz finirà anche al fronte, quello russo, e lì finirà prigioniero, rimanendo in un campo di lavoro durissimo fin quasi al ’48. È lì che mostrando le sue conoscenze mediche e psicologiche si farà largo sia in termini di cura altrui, sopravvivenza materiale (saprà cosa e quali animali mangiare per non finire denutrito) e nuovo rilancio di carriera. Sarà nelle baracche oltre il Volga ghiacciato e tra le travi vista monte Ararat che Lorenz metterà ordine e scriverà L’anello di Re Salomone. L’innata spigliatezza al racconto romanzato farà la fortuna dell’etologo austriaco. E tutta quell’aneddotica animale-uomo, lucidata in prima persona singolare, diverrà il suo cavallo di battaglia anche di fronte alle fondate contestazioni.

Jerger attraversa il Novecento mitteleuropeo a cavallo delle due guerre e poi nei “gloriosi trenta”, imbastendo attorno al tassello principale di Lorenz un florilegio di personalità e vite coeve – Edmund Husserl, Lee Miller, Karl Popper, Paul Celan, Willy Brandt e appunto Heidegger – di suore coraggiose e soprattutto bestiole sincere e dirette, mai pericolose, strette proprio addosso a quel Konrad (l’amicizia con due topi durante la prigionia è emblematica) che in fondo dedicò la sua vita alla loro, proprio per spiegare, quasi fosse tutto scritto nel libro del destino genetico, che qualcuno si sarebbe occupato di loro mettendoli a livello paritario con gli uomini. Il racconto della Jerger è talvolta intervallato da alcuni flashforward nel presente per certificare le intuizioni di Lorenz, come illuminato da dettagli specifici sulla vita dell’etologo in vecchiaia che scoprì subito il valore di un testo come Primavera silenziosa (1962), dove Rachel Carson descriveva questa improvvisa cancellazione del ritmo millenario della natura intossicata dal DDT e senza più uccelli che cantano. Per Lorenz, che di oche, anatre, taccole, tucani aveva fatto un’amorevole mania, figuriamoci: come può esistere il mondo senza questi amabili versi? Di fondo rispetto a noi umani che cantiamo con la gola, gli uccelli non hanno la laringe direttamente sopra il cuore e da lì cantano? Per questo diventò una sorta di proto ambientalista ecologista con tanto di responsabilità istituzionali nel governo socialdemocratico di Brandt e fondatore di un movimento di salvaguardia del pianeta ante litteram, perfino prima della nascita dei futuri “Verdi”.